Riccarda Granata

Coordinatrice del progetto GHRHagoALS e Professore associato in Endocrinologia al Dipartimento di Scienze Mediche dell’Università degli Studi di Torino.

Sono nata a Milano, ho 58 anni e un figlio di 28.

Sono diventata ricercatrice perché sono sempre stata una persona curiosa, fin da bambina. La curiosità è ciò che ti spinge a chiederti il perché delle cose, a cercare risposte, a non accontentarti. A questa spinta personale si è aggiunto il desiderio di seguire le orme di mio padre, uno scienziato nel campo della medicina brillante e innovativo, scomparso prematuramente. Fare ricerca è stato anche un modo per sentirlo vicino.
In realtà, inizialmente sognavo di diventare etologa e studiare il comportamento degli animali. Poi, quasi per caso, mi sono ritrovata nella ricerca medica e da lì non me ne sono più andata.

Il mio interesse per la SLA è nato da un percorso di ricerca iniziato anni fa studiando gli effetti dell’ormone GHRH sul cuore.  Diverse evidenze in modelli di SMA e Alzheimer ci hanno spinti a chiederci se il GHRH potesse avere un ruolo protettivo anche nella SLA. Da qui è nato il progetto attuale con AriSLA, con l’obiettivo di individuare una possibile terapia farmacologica che possa realmente contribuire alla cura dei pazienti affetti da SLA.

CI RACCONTA IL SUO PERCORSO DI STUDI? 

Non ho avuto l’opportunità di studiare o lavorare all’estero, e questo resta uno dei pochi rimpianti del mio percorso scientifico. Tuttavia, ho avuto, e continuo ad avere, numerose collaborazioni con gruppi di ricerca internazionali. Questi rapporti mi hanno permesso di uscire dai confini della realtà italiana e di confrontarmi con studiosi di alto livello, arricchendo il mio percorso umano e professionale.

HA UN MODELLO DI RIFERIMENTO?

Io mio modello di riferimento è stato il Professor Andrew Schally, premio Nobel per la Medicina e la Fisiologia nel 1977. Ho avuto il privilegio di collaborare con lui per circa dieci anni. Purtroppo, è mancato l’anno scorso, all’età di 97 anni. Era un uomo straordinario: brillante, appassionato, autorevole e rigoroso, ma sempre disponibile ad ascoltare le idee altrui e ad accogliere nuove sfide. Un vero scienziato, nel senso più autentico del termine. Ha lavorato con lucidità e determinazione fino all’ultimo giorno della sua vita. Nel campo dell’endocrinologia ha raggiunto risultati eccezionali, scoprendo praticamente tutto ciò che era possibile. Se ci fosse stata l’occasione, avrebbe meritato senza dubbio un secondo Nobel.

C’E’ UN INCONTRO CHE LE HA SEGNATO LA VITA?

Due incontri in particolare hanno segnato la mia vita scientifica. Il primo risale ai miei 19 anni, quando ho incontrato il Professor Fabio Malavasi. Mi ha accolto nel suo laboratorio di Biologia Cellulare all’Università di Torino, dove ho svolto anche la mia tesi di laurea sperimentale. È stato lui a trasmettermi cosa significhi davvero fare ricerca: rigore, dedizione, passione e indipendenza. Non è sempre stato facile, ma nel tempo ho capito quanto i suoi insegnamenti siano stati fondamentali per la mia formazione. Il secondo incontro è avvenuto in un momento delicato, in cui avevo temporaneamente lasciato la ricerca, pur sentendola ancora profondamente mia. Il Professor Ezio Ghigo ha riconosciuto in me la passione per la scienza e, nel 2000, mi ha dato la possibilità di fondare un laboratorio di Endocrinologia Molecolare e Cellulare, che ancora oggi dirigo all’interno del Dipartimento di Scienze Mediche dell’Università di Torino. Oltre al sostegno e alla fiducia, mi ha regalato qualcosa di ancora più prezioso: la libertà. Libertà di pensiero, di azione e di scelta. Grazie a lui ho potuto costruire le mie linee di ricerca, formare il mio gruppo, cercare fondi (spesso con fatica), ed entrare nel mondo accademico, dove ho il privilegio di trasmettere questa passione anche alle nuove generazioni.

PERCHE’ STUDIA LA SLA?

Il nostro interesse per la SLA è nato da un percorso di ricerca iniziato anni fa, insieme al Professor Andrew Schally, studiando gli effetti dell’ormone GHRH (growth hormone-releasing hormone) sul cuore, dove abbiamo riscontrato importanti proprietà protettive. Successivamente ci siamo concentrati sulla SMA (atrofia muscolare spinale), una grave malattia neurodegenerativa che colpisce i bambini e che, per certi aspetti, somiglia alla SLA. In collaborazione con un gruppo di neuroscienziati torinesi, abbiamo osservato che il GHRH, in particolare il suo derivato, MR-409, ha effetti protettivi significativi in modelli di SMA. Recentemente, abbiamo ottenuto risultati simili anche in modelli di malattia di Alzheimer. Queste evidenze ci hanno spinti a chiederci se il GHRH potesse avere un ruolo protettivo nella SLA. Da qui è nato il progetto attuale, con l’obiettivo di individuare una possibile terapia farmacologica che possa realmente contribuire alla cura dei pazienti affetti da SLA.

COSA LA COLPISCE DELLE PERSONE CON SLA?

Ho incontrato diversi malati di SLA, così come di SMA. Mi colpisce la loro profonda dignità nell’affrontare un percorso di vita con la malattia che è molto doloroso, anche per le persone che li affiancano

CHE CONTRIBUTO IMMAGINA DARA’ ALLA SUA RICERCA IL GRANT VINTO CON ARISLA?

Il contributo di AriSLA ha rappresentato per noi un’opportunità straordinaria. Siamo partiti con un progetto Pilot della durata di un anno, ma abbiamo molte idee per proseguire e ampliare le nostre ricerche nel campo della SLA, anche in base ai risultati che emergeranno da questo primo studio.

Grazie al finanziamento AriSLA crede che in futuro avrà l’opportunità di accedere ad altri fondi?

Trovare fondi per sostenere i progetti di ricerca è sempre più difficile. Credo che l’accesso a nuovi finanziamenti dipenderà soprattutto dai risultati di questo studio e dalla qualità del prodotto finale, in particolare dalla pubblicazione su riviste scientifiche internazionali di alto livello. Per indole sono ottimista e fiduciosa, e mi auguro di riuscire a ottenere nuove risorse per garantire continuità a un progetto così importante.

C’E’ QUALCOSA CHE LA MOTIVI NEL SUO LAVORO?

La ricerca è, prima di tutto, passione ed è proprio la passione a muovere ogni cosa. Trovo le mie motivazioni soprattutto nei momenti in cui i risultati sperimentali confermano le ipotesi iniziali: è allora che capisco di essere sulla strada giusta. Anche vedere i giovani in laboratorio entusiasti del loro lavoro, riuscire a pubblicare risultati importanti dopo tanta dedizione, ottenere finanziamenti e collaborare con gruppi altrettanto motivati sono tutti elementi che alimentano costantemente il nostro impegno nella ricerca.

QUALI SONO LE SUE PASSIONI O GLI HOBBY? INCIDONO IN QUALCHE MODO NEL SUO LAVORO DI RICERCATRICE?

Lo sport è da sempre una delle mie passioni, soprattutto l’equitazione, ma anche il tennis, la corsa e lo sci. L’aspetto agonistico, in particolare, è una grande scuola di vita: insegna a gestire le sconfitte, a rialzarsi, a lavorare con costanza per migliorarsi. Sono insegnamenti che valgono anche nella ricerca, dove errori e delusioni fanno parte del percorso. Imparare ad affrontarli è fondamentale, proprio come nello sport. Amo anche leggere, viaggiare, suonare il pianoforte e camminare in montagna. Ogni tanto, mi concedo anche il lusso di non fare nulla: un privilegio raro, ma prezioso, nel ritmo frenetico della vita quotidiana.

SOGNO NEL CASSETTO?

Il mio sogno è che i risultati delle nostre ricerche possano tradursi in una cura concreta, in grado di cambiare davvero la vita dei pazienti. Credo sia questo il desiderio più autentico di ogni ricercatore: trasformare la conoscenza in speranza, e la speranza in una reale possibilità di guarigione.

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