Andrea Vettori
Sono nato a Marostica (provincia di Vicenza) e ho 46 anni. Sono sposato da 12 anni e ho due bimbi di 10 e 5 anni. Sono diventato ricercatore perché è sempre stata la mia più grande aspirazione, sin da piccolo. Se da grandi gli altri bambini sognavano di fare l’astronauta, il pompiere il calciatore, a me brillavano gli occhi all’idea di mettere un camice e poter fare lo “scienziato”. Durante il difficile momento segnato dalla diffusione del Covid-19, ho cercato di continuare a svolgere il mio lavoro anche nei periodi di lock-down. Importante è stata la possibilità di avere il contatto continuo con tutti i giovani ricercatori e gli studenti che lavorano con me. Questo periodo mi ha dato ancora di più la conferma dell’importanza della scienza e della ricerca di base in particolare.
E’ stato per me incredibile ed emozionante rendersi conto di come la scienza ci abbia salvato ancora una volta grazie allo sforzo congiunto di miglia di ricercatori sparsi in laboratori di tutto il mondo, che ha permesso di creare vaccini efficaci in 8 mesi invece che in otto/dieci anni.
All’Università di Padova ho conseguito la Laurea in Biologia e anche il dottorato in Genetica e biologia molecolare dello sviluppo. Tra il 2002 e 2003 mi sono trasferito ad Oxford per lavorare nel laboratorio di Neurogenetica guidato dal prof. Anthony Monaco presso il Wellcome Center for Human Genetics. Lui è stato la persona che mi ha ispirato di più in ambito lavorativo: pur essendo un ricercatore di fama mondiale con alle spalle centinai di articoli scientifici pubblicati dedicava tutto il suo tempo disponibile nel seguire e nel guidare personalmente i giovani ricercatori impiegati nel suo laboratorio, riuscendo ad entusiasmarsi per ogni piccola o grande scoperta. Un esempio anche da punto di vista umano, sempre disponibile, aperto al confronto e amichevole anche con studenti e dottorandi. Rientrato in Italia ho lavorato alcuni anni sempre a Padova nel laboratorio di Genetica Molecolare con la Prof.ssa Mostacciuolo: grazie a lei ho iniziato a studiare SLA e ho conosciuto i primi pazienti. In seguito mi sono reso indipendente trasferendomi a Verona al dipartimento di Biotecnologie dove ho spostato il mio laboratorio di Neurogenetica e Biologia Traslazionale.
Sono tanti gli incontri che hanno segnato la mia vita, nel bene o nel male. Tutti i mentori e i supervisor che ho avuto nel corso degli anni mi hanno insegnato o lasciato qualcosa di importante sia a livello scientifico che a livello umano. Quello che ho imparato da ciascuno fa parte del mio bagaglio culturale e scientifico. Mi piace credere di aver appreso o carpito da ognuno di loro il meglio delle loro competenze rendendomi di volta in volta un ricercatore e una persona migliore.
La motivazione più grande per lo svolgimento del mio lavoro viene sicuramente dalla fiducia nel fare qualcosa per far progredire la ricerca e poter in un prossimo futuro migliorare la qualità della vita dei pazienti. Ogni passo in avanti e ogni scoperta ci avvicina alla metà che è trovare una cura per questa patologia.
La cosa che più mi colpisce delle persone con SLA è la loro perfetta lucidità e la loro consapevolezza. L’immagine terribile che mi passa danti agli occhi è quella di una mente imprigionata in un corpo che un po’ alla volta non è più in gradi di muoversi.
Grazie al finanziamento di AriSLA avrò la possibilità di testare sperimentalmente la mia ipotesi e generare un nuovo modello animale per analizzare una forma molto rara di SLA infantile che è poco conosciuta e poco studiata. Per il mio laboratorio questo grant è essenziale, Arisla è infatti il punto di riferimento più importante per tutti quelli che studiano la SLA in Italia e se la ricerca finanziata darà buoni risultati diventerà più semplice chiedere un nuovo finanziamento per proseguire la mia linea di ricerca e verificare le mie ipotesi di lavoro.
Tra le mie passioni c’è la lettura di libri di fantascienza e fantasy e quella per la montagna, nata durante il servizio di leva che ho svolto in Val D’Aosta negli Alpini. Quando posso, vado con la mia famiglia a fare lunghe camminate d’estate e a sciare d’inverno. Credo che come l’alpinismo anche la ricerca scientifica richieda tanto sacrificio per arrivare alla meta.
Il mio sogno nel cassetto? Professionalmente il mio sogno è quello di poter avere tutti i fondi di ricerca necessari per poter svolgere al meglio il mio lavoro, e poter attrarre nuovi giovani ricercatori talentuosi per affiancarmi in questa lunga e difficile “battaglia” contro la SLA. (data pubblicazione 28/6/2021)