Valeria Gerbino
Sono nata a Roma e ho 37 anni. Durante il liceo ho scoperto la passione per la biologia e per le lingue. Ero indecisa se perseguire l’una o l’altra strada per gli studi universitari. Sfortunatamente nel contesto di questa decisione importante, mia nonna, alla quale ero molto legata, si ammalò di tumore al polmone e nel giro di pochi mesi venne a mancare. Decisi quindi che sarei diventata una ricercatrice e che avrei dedicato la mia carriera a studiare i tumori. Iniziai il corso di laurea in biologia umana, durante il quale però, mi accorsi quasi da subito che la mia vera passione e interesse scientifico era nelle neuroscienze. Iniziai quindi a capire che quello sarebbe stato il mio campo di ricerca. E lo è da allora.
Il grant AriSLA permetterà di studiare un argomento che mi sta molto a cuore: il ruolo di TBK1, un gene implicato nella SLA sia sporadica che familiare, nell’autofagia e nella morte cellulare in motoneuroni derivati da pazienti SLA.
Ho conseguito il dottorato all’Università di Roma Tor Vergata, studiando la SLA nel laboratorio della professoressa Maria Teresa Carrì. Durante gli anni del dottorato mi sono interessata alla SLA dal punto di vista del metabolismo dell’RNA, e ho scoperto che mutazioni nel gene FUS/TLS, associate alla SLA, causano problemi in un processo cellulare chiamato “splicing dell’RNA”. Dopo il dottorato, mi sono spostata negli Stati Uniti, alla Columbia University, dove ho lavorato come post-doc prima e come ricercatore associato dopo, nel laboratorio di Tom Maniatis. Negli USA, ho focalizzato i miei studi su altri due processi implicati nella patogenesi della SLA: l’accumulo di aggregati proteici e la neuroinfiammazione. Dopo più di 8 anni negli USA, sono rientrata in Italia da pochi mesi grazie ad un finanziamento della Motor Neuron Disease Association, che mi ha permesso di aprire il mio laboratorio a Roma, continuando gli studi iniziati alla Columbia University. E dopo poco, AriSLA ha finanziato anche un altro progetto del laboratorio.
Scientificamente, un altro punto di riferimento è stato Tom Maniatis nel periodo in USA. Tom è stato un mentor più nel senso “spirituale” che “materiale” del termine. Nel senso che non mi ha insegnato a fare gli esperimenti, ma mi ha insegnato a pensare scientificamente. Mi ha stimolato ad essere uno scienziato rigoroso e ambizioso, sempre aggiornato con la letteratura, avido di conoscenza, e sempre alla ricerca della migliore qualità dei risultati possibili. Ancora più importante, mi ha insegnato a vedere quella che gli americani chiamano la “big picture”, ossia il contesto generale in cui si inserisce la ricerca, e i suoi sviluppi a lungo termine. Sarebbe troppo ambizioso dire che vorrei diventare come lui, ma resterà sicuramente un saldo modello di riferimento nella mia carriera.
Sono sempre stata affascinata dalla complessità del sistema nervoso e dai delicati equilibri che lo governano. Studiare le malattie neurodegenerative significa per me studiare perché questi equilibri vengono a mancare e come e se possono essere ripristinati. Devo la mia passione iniziale per lo studio della SLA a Maria Teresa Carri’ e Mauro Cozzolino, che per primi mi hanno fatto conoscere questa malattia e la sua complessità durante il dottorato nel loro laboratorio.
Ho incontrato alcuni pazienti SLA che, avendo letto su internet delle ricerche mie o del laboratorio in cui lavoravo, ci hanno scritto per chiedere di parlarci. Durante gli incontri mi ha colpita la caparbietà, la forza di volontà dei pazienti, e la voglia di studiare, documentarsi, parlare con i ricercatori e capire la malattia in ogni suo aspetto. Ed è questo che mi motiva a fare il mio lavoro. Vorrei che gli sforzi di noi ricercatori, dei medici, e soprattutto dei pazienti SLA, portassero presto a migliorare sensibilmente la qualità e l’aspettativa di vita dei pazienti.